La natura umana e la scienza contemporanea

la natura umana e la scienza contemporanea

 

Alberto Strumia*

 

1. Introduzione - 2. Una via tracciata dal Magistero - 3. L’approccio della scienza - 4. Conclusioni

 

1. Introduzione

Da qualche anno a questa parte gli osservatori e gli intellettuali più attenti sembrano ormai essersi accorti e arresi di fronte ad una sorta di “dato sperimentale” – se così possiamo chiamarlo prendendo a presto l’espressione dal linguaggio delle scienze – che non è più possibile trascurare e tanto meno ignorare. Si tratta di un dato che affiora contemporaneamente nella dimensione “pratica” della vita della persona e del corpo sociale, così come nella dimensione “teorica” delle diverse discipline scientifiche, sia nelle scienze dette comunemente “dure” (come le scienze fisiche e matematiche, ad esempio) come in quelle più vicine all’uomo (quali la biologia, le scienze cognitive, antropologiche e sociali, ecc.). Si direbbe che solamente un habitus mentale “riduttivo” acquisito da lungo tempo,[1] se non un vero e proprio pregiudizio ideologico, possono far sì che esso non venga riconosciuto.

Sul versante “pratico” tale dato consiste nel manifestarsi di una serie di contraddizioni entro le quali la persona umana nella sua individualità così come nei suoi rapporti relazionali si trova da oggi a vivere.[2] Contraddizioni che si ripercuotono sull’intera comunità umana ai diversi livelli: quello della famiglia, della convivenza civile (nel paese o nella città, nella nazione, nel rapporto tra le nazioni, le culture, le religioni).[3] Il fatto che si deve registrare è che la condizione dell’uomo, ai nostri giorni, sia nella dimensione interiore e privata che in quella esteriore e pubblica tende a divenire sempre meno “vivibile”.

Sul versante “teorico” – ormai giunto al termine di quella parabola, prima ascendente e poi discendente, percorsa dalla razionalità, che l’ha vista confrontarsi per due millenni con il Fatto Cristiano[4] – il pensiero filosofico è stato interamente sorpassato, almeno quanto all’efficacia dei risultati, dal potente progresso delle scienze naturali e matematizzate che si sono sviluppate prendendo le distanze dalla filosofia (prima dalla metafisica medievale e poi anche dalla filosofia più recente).

Successivamente, però, proprio all’interno delle stesse scienze sono emerse delle contraddizioni inaspettate: contraddizioni di carattere metodologico (che hanno condotto ad esempio alla cosiddetta “crisi del riduzionismo”) e di carattere logico (che sono sorte nell’ambito della “teoria dei fondamenti” della matematica). Contraddizioni e problemi che non si sono manifestati solo in un settore particolare delle scienze, ma che sono emerse quasi simultaneamente in tutte le discipline: da quelle fisiche, biologiche con il problema della “complessità” a quelle cognitive, antropologiche ad esempio con la questione del “rapporto mente-corpo”, a quelle informatiche e logico-matematiche con i “paradossi logici e semantici” nei loro fondamenti, ecc,[5] «temi comuni così sbalorditivi che un numero crescente di scienziati crede di potervi trovare più di una semplice serie di belle analogie».[6] Non a caso le scienze, in questi ultimi anni, sembrano essersi assestate maggiormente sulle loro applicazioni tecnologiche[7] che su un effettivo avanzamento di una sintesi teorica: basti pensare, ad esempio, come in fisica dopo un secolo non abbiamo ancora una sintesi concettuale tra relatività e meccanica quantistica, non abbiamo un’interpretazione soddisfacente della meccanica quantistica stessa, non abbiamo una teoria quantistica della gravitazione, ecc.[8]

Sembrano prospettarsi allora due possibilità:

— quella di ignorare questo dato di fatto, nel suo manifestarsi, al livello pratico, come problema della “vivibilità” (posizione che al momento pare essere ancora la più seguita) vivendo per quanto possibile “di rendita” a spese delle “riserve culturali” delle quali ancora disponiamo, fino al loro completo esaurimento;

— oppure quella di interrogarsi sulle cause dell’emergenza di tali contraddizioni, in vista di un loro possibile – anche se certamente non automatico – superamento attraverso una correzione dei presupposti culturali che inevitabilmente le determinano.

Questa seconda possibilità orientata ad una revisione di “metodo” e dei “fondamenti” – e questo è l’elemento a mio parere più significativo – è quella che viene oggi presa in considerazione contemporaneamente nell’ambito della ricerca scientifica più matura, in vista di un effettivo nuovo progresso della conoscenza scientifica, e nell’insegnamento autorevole del Magistero della Chiesa, in vista della salvaguardia del bene comune nel cammino dell’umanità e della vita della Chiesa. E non deve meravigliare una tale consonanza in quanto sia al Magistero che alla scienza “autentica” sta a cuore la conoscenza e la custodia della “verità”, della “natura” delle cose create e in particolare della “natura umana”.

Oggi l’insegnamento del Magistero interpella direttamente credenti e non credenti non appena come un’esortazione morale normativa per i primi e facoltativa per tutti gli altri, ma come portatore di contenuti razionali (riconoscibili quindi anche da chi non ha il dono della fede, ma ha comunque quello della ragione) con i quali è rilevante confrontarsi in ordine alla dimensione della vita pratica come a quella della ricerca scientifica. La riproposizione tenace di un “realismo conoscitivo e metafisico”, di una razionalità che riconosce l’esistenza di un verità oggettiva (oltre il relativismo delle nostre culture odierne), di una “legge morale naturale” (senza la quale l’esercizio del diritto diviene anche concretamente impraticabile), di una “natura umana” irriducibile e metafisicamente permanente (senza la quale la vita perde di fatto dignità, valore e sostenibilità esistenziale), di una dimensione materiale e di una immateriale della realtà e dell’uomo (senza presupporre la quale non si comprende a pieno neppure che cos’è e come opera la “mente” umana), e così via, sono tutte questioni che ormai bussano anche alla porta delle scienze. E questa volta non dall’esterno – come una domanda filosofica che va oltre la scienza, o come una norma morale estrinseca rinviabile nella soggettività privata del singolo – ma dall’interno del metodo scientifico e delle stesse teorie fondamentali, domandando di essere aperte in vista di un approccio scientifico alla metafisica. Si tratta di una sorta di rovesciamento del metodo cartesiano: non più una riduzione della metafisica alla matematica, ma al contrario un ampliamento della scienza matematizzata verso un’ontologia – che non si limiti alla “quantità” e alla “relazione” tra quantità, – per divenire maggiormente capace (capax) di cogliere e rispettare la “natura” delle cose e dell’uomo, fino a riconoscerne la dipendenza dal Creatore, come principio di “completezza” e garanzia di “coerenza” di tutta la realtà e di tutta la umana conoscenza.[9]

 Ecco che la questione della “natura umana” si presenta come rilevante di fronte alle scienze secondo un duplice punto di vista: da un lato la dimensione conoscitiva e scientifica è propria dell’uomo come “soggetto razionale” che fa la scienza e la utilizza, dall’altro essa si presenta all’uomo anche come “oggetto razionale” da indagare e conoscere nei suoi principi ontologici fondamentali e nei suoi aspetti specifici. Inoltre la natura umana è così chiamata in causa come soggetto conoscente e operante, in quello stretto intreccio di teoria e pratica, di epistemologia ed etica che trova nei fondamenti logici, metafisici e antropologici le sue basi.

Cercheremo di affrontare qualche aspetto di queste problematiche sia attraverso alcuni testi del Magistero (§2) che a partire da alcune problematiche scienze (§3).

 

2. Una via tracciata dal Magistero

2.1. Il messaggio “filosofico” del Magistero recente

Il recente Magistero della Chiesa, soprattutto quello di Giovanni Paolo II prima, e di Benedetto XVI ora, è ormai necessariamente impegnato con le grandi “questioni filosofiche”[10] e non si limita ad affrontare temi riguardanti la dottrina cattolica o la teologia. E questo perché una risposta relativista, in qualche modo agnostica, o scettica a queste ultime:

— non solo finirebbe per rendere impossibile una vera “fede”, cattolicamente intesa,[11] e una vera “teologia”, in quanto negherebbe la capacità della “ragione” di conoscere qualcosa di reale e oggettivo (“vero”), e quindi la stessa “filosofia” come forma di conoscenza (questa è stata sempre una preoccupazione del Magistero in vista di un corretto rapporto tra “ragione” e “fede”, tra “filosofia” e “teologia”), ma

— finirebbe (sul piano pratico) per compromettere la stessa “vivibilità” della società degli uomini e la loro vita individuale (e questa è una preoccupazione che si è accentuata particolarmente nel Magistero recente[12] che si rivolge con determinazione particolare a tutti gli uomini) e,

— finirebbe (sul piano teorico) per vanificare la conoscenza e ultimamente quindi il valore conoscitivo della scienza, riconoscendole solo un’efficacia strumentale e tecnologica.

La vera “novità”, se così possiamo chiamarla, del Magistero recente sta nell’avere evidenziato con particolare insistenza, rivolgendosi perciò a tutti gli uomini, questo secondo aspetto del nesso inevitabile tra alcuni “nodi teorici” (filosofici: epistemologici ed etici) e la concreta “vivibilità” o “invivibilità” della stessa esistenza individuale e sociale nella comunità umana (casa, città, nazione, mondo globale). In tal modo il riferimento a determinati “contenuti di conoscenza” e a determinati “valori etici” non può essere più percepito come richiamo esterno, facoltativo e moralistico espresso da un’“autorità” (che può essere accettata o meno), ma entra a far parte di un “giudizio” sui fatti della storia presente e sulla natura delle cause di alcune delle sue contraddizioni più rilevanti. Si tratta di un modo di leggere la storia “odierno” e “credibile” che Giovanni Paolo II ha in un certo senso inaugurato, introducendo un modo di proporre il Magistero che lo ha liberato da quello stile un po’ distante e asettico di un tempo, rendendolo più afferrabile come significativo per l’uomo di oggi. E Benedetto XVI sta proseguendo nella stessa strada ponendo la questione della “ragione” come base per il “dialogo” a tutti i livelli (interumano, interreligioso, interculturale, politico-internazionale, ecc.).[13]

 In sintesi il messaggio chiaramente lanciato dal Magistero odierno è duplice:

— da un lato esso si impegna su un “giudizio storico” che constata la progressiva diminuzione del grado di “vivibilità” della presente società degli uomini (secondo le diverse forme in cui essa si attua in Occidente e in Oriente, in un mondo globalizzato), sia a livello individuale che comunitario;[14]

— dall’altro lato esso afferma che questa “perdita di vivibilità” è da riconoscere come “effetto” di una “causa” primaria (anche se non unica) e non è né casuale né ineluttabile.[15] L’avere rimosso alcuni fondamenti “filosofici” – quindi “di ragione” e solo per accidens anche “di fede” – alla base della cultura che regge la società degli uomini, ne ha determinato la progressiva minore vivibilità. Tali fondamenti filosofici sono una “condizione necessaria” quindi indispensabile, anche se evidentemente non “sufficiente”: la loro attuazione rimane comunque affidata alla libera scelta dell’uomo (volontà) oltre che alla sua capacità (intelletto, ragione) di ri-conoscerli.

Tali presupposti filosofici, di ordine logico,  metafisico, etico sono stati considerati “ingenui” (e non senza ragioni ai tempi di una scolastica decadente e inefficace) e quindi non accettabili dal pensiero moderno e perciò, alla fine respinti: tuttavia oggi si può constatare esperienzialmente come il loro venir meno sia alla base di una crisi globale della convivenza civile tra gli uomini e dello stesso equilibrio esistenziale della persona. Dunque, secondo l’indicazione del Magistero, essi vanno opportunamente e adeguatamente ritrovati:

— in un primo momento almeno assunti come “ipotesi provvisoria” sulla quale fondare la convivenza umana (per una sorta di necessità di fatto: nelle emergenze si superano le divisioni di qualsiasi natura e si pensa ai soccorsi),

— in un secondo momento fondati teoreticamente in forma “non ingenua”, ma rigorosa, diciamo pure “scientifica”. E proprio il metodo scientifico oggi ha qualcosa da dirci in proposito. Mi soffermerò su questo, in seguito, affrontando l’approccio della scienza (cfr. infra, §3).

In particolare le due grandi questioni “fondazionali” evidenziate dal Magistero e proposte urgentemente all’attenzione degli intellettuali e di tutti gli uomini sono almeno due:

1.          quella di una corretta concezione della “ragione” e con essa della “verità” (sul piano teoretico);[16] e

2.          quella di una corretta concezione della “natura umana” e quindi della “legge morale naturale” (sul piano pratico) – non di rado divenuta desueta anche nel contesto teologico – con i loro mutui intrecci.[17]

In particolare il Magistero afferma alcune verità che, pur essendo state anche rivelate, sono raggiungibili pure per via razionale e invita gli uomini di cultura a ritrovarle in certo modo “scientificamente” oggi.[18]Scientificamente parlando esse possono essere considerate al momento, almeno provvisoriamente, come ipotesi di lavoro “irrinunciabili” (un tempo si sarebbe detto “evidenti”),[19] la cui validità potrà almeno essere corroborata dall’esperienza e, col tempo, meglio giustificata anche teoricamente. Credo che ai nostri giorni il punto di incontro tra gli uomini di scienza e di cultura debba essere su questi temi, oggetto di una riflessione razionale possibile e comune a tutti, indipendentemente dalle convinzioni ideologiche o religiose. Si tratta di compiere un lavoro di «risanamento della ragione come ragione».[20]

Va detto, per inciso, che in questo il patrimonio della tradizione filosofico-teologica cristiana ha obiettivamente un contributo unico da dare anche per orientare la ricerca razionale filosofico-scientifica, ad identificare/dimostrare alcune ipotesi/tesi irrinunciabili all’interno dello statuto epistemologico proprio di ciascuna disciplina.[21] Tuttavia la questione della difesa della ragione, e del suo «risanamento», oggi, non è più solo un problema dei teologi, dei filosofi credenti[22] che intendono mantenersi in linea con il Magistero della Chiesa, ma è un problema in qualche modo scientifico: la domanda è «se e come la verità possa tornare ad essere “scientifica”».[23]

Se la ragione, e con essa la filosofia appare oggi spesso rinunciataria, relativista e nichilista,[24] la fede, e con essa la teologia, ne risentono di conseguenza, divenendo inevitabilmente più “fideiste” e quindi meno cattoliche.

Benedetto XVI, fino dal tempo in cui era cardinale, aveva focalizzato la questione della crisi della ragione e quindi della filosofia e della cultura del nostro tempo, affermando che

«Questo relativismo, che oggi, quale sentimento base della persona “illuminata”, si spinge ampiamente fin dentro la teologia, è il problema più grande della nostra epoca».[25]

Ma questo è stato per lungo tempo un problema che veniva considerato principalmente come interno al solo mondo cattolico e che non riguardava più di tanto né la sfera della “cultura civile”, né tanto meno il “mondo della scienza” che potevano procedere senza occuparsene.

La sfera civile si poteva reggere senza porre la questione della “ragione” e della verità oggettiva (dandola in qualche misura per scontata come un’eredità comune che si stava, però, esaurendo progressivamente, ma di questo esaurirsi non ci si è preoccupava più di tanto) e, quindi ancor meno quella della “natura umana” e della “legge naturale”:

— o perché l’ideologia, fosse atea o rivestita di una copertura religiosa, imposta con la forza di un potere coercitivo ne sostitutiva le argomentazioni (nelle aree rette da regimi totalitari atei o teocratici), prendendo il posto della verità;

— o perché le regole di una democrazia sempre più basata sulla captatio del consenso sembravano sufficienti a sostituire quelle argomentazioni (nelle aree dei paesi “liberi”) rimpiazzando la verità con l’“opinione della maggioranza” e con la “convenzione sociale”.[26]

In entrambi i casi, comunque, veniva negata esplicitamente o tacitamente la possibilità di una “oggettività” della verità attingibile dalla ragione (sul piano della conoscenza), e della natura dell’uomo (sul piano dell’essere).

In mancanza di una tale oggettività, riconoscibile almeno in alcuni aspetti come comune a tutti, questa veniva sostituita con il surrogato della “oggettivazione”  ideologica (nel primo caso) o democraticamente consensuale (nel secondo caso).

E questo sembrava poter essere sufficiente a garantire, più o meno accettabilmente, la vita degli uomini e dei popoli. Certo gli eccessi delle dittature apparivano condannabili; così come  l’eccessiva sregolatezza delle democrazie troppo permissive non sembravano giovare del tutto alla loro stabilità, ma in qualche modo si è andati avanti. E lo si è potuto fare, almeno nel mondo occidentale cristianizzato, grazie ad un’eredità non ancora del tutto consumata, che era insieme

— debitrice, alla filosofia greca e alla teologia medioevale, di una consuetudine ad una concezione e ad un uso della ragione penetrata nella cultura e connaturale ai costumi dei popoli; e

— debitrice al diritto romano che aveva evidenziato, con Cicerone, la legge naturale come fondamento del diritto. Ed è proprio la legge naturale il secondo grande pilastro che insieme a quello della verità deve essere recuperato per risanare la ragione sia nella sua dimensione teoretica che pratica, secondo l’indicazione del Magistero, [27] e quindi riaprire la via verso la vivibilità.

 

2.2. L’approccio del Magistero recente alla scienza

Abbiamo già rilevato come prima del Vaticano II l’attenzione del Magistero si sia dovuta concentrare, per ovvi motivi storici e dogmatici, sui problemi del rapporto fede-ragione piuttosto che sul tema delle scienze.[28]

Per quanto riguarda il tema della scienza in senso stretto, possiamo osservare che nei testi del Magistero precedenti a Giovanni Paolo II, compresi quelli del Vaticano II,[29] si notano almeno tre atteggiamenti:

1) un atteggiamento di “meraviglia” che attraverso i risultati delle scienze viene destato nel credente: a] di fronte al creato per il suo ordine governato da leggi perfette e belle e quindi alla sapienza ordinatrice di un Creatore al quale esse ragionevolmente rimandano; b] di fronte all’uomo che è stato reso capace, dal medesimo Creatore, di scoprirle e utilizzarle ad un livello così sorprendente;

2) un atteggiamento di “attenzione etica”, preoccupata dalle conseguenze sull’uomo e sul creato dell’azione dell’uomo che si serve della tecnologia che la scienza gli consente di realizzare, sia in ordine alle applicazioni che alla stessa ricerca. In conseguenza di questa preoccupazione emerge

3) un atteggiamento di “auspicio” che vi sia un cammino concorde di scienza ed etica, e un dialogo maggiormente disteso tra scienza e fede.

Con Giovanni Paolo II inizia ad esplicitarsi con sistematicità un lavoro di raccordo tra l’etica e l’epistemologia, tra l’antropologia e la metafisica, a partire dalla lettura delle contraddizioni dell’esperienza dell’uomo e della società. Si tratta di una sistematica applicazione di un metodo, che diviene con lui proprio del Magistero, che parte dalla lettura “fenomenologica” dell’esperienza per interpretarne le contraddizioni come “effetti” inevitabili di “cause” concorrenti a produrli, che risiedono nei principi “teorici”.

Egli ha aperto e percorso una strada che ci consente di leggere adeguatamente il cammino delle scienze odierne e della riflessione epistemologica e sociologica su di esse. Il suo metodo consiste nel tenere presenti contemporaneamente gli aspetti “esterni” e quelli “interni” alle scienze e le loro reciproche connessioni. Il suo insegnamento su tali tematiche:

— dall’esterno della scienza parte dal dato dell’esperienza, al livello sia personale che sociale e giunge a rintracciare i nodi teorici delle contraddizioni rilevate nell’esperienza;

— dall’interno di essa suggerisce di individuare quei problemi di ordine logico e fondazionale che finiscono per bloccare lo stesso svilupparsi delle teorie scientifiche, indicando i limiti intrinseci del modello di razionalità finora considerato valido e ricercando una via costruttiva di una “razionalità più ampia”, aperta anche ad una dimensione che possa trascenderla, come quella della fede.

Se il percorso che parte dall’esterno è, in certo senso una “via negativa”, e solo sintomatica di uno stato di disagio che non riesce però a sanare, il percorso che parte dall’interno è invece “positivo”, nel senso che si propone di essere “costruttivo” di questa nuova razionalità e non appena indicativo di ciò che non va.

La via esterna, per quanto riguarda la scienza, è percorsa soprattutto nel “Discorso a scienziati e studenti”, pronunciato a Colonia 15 novembre 1980, che costituisce un punto di riferimento anche per altri discorsi successivi del suo pontificato su questo argomento.[30]

La via interna comincia ad apparire più esplicitamente in alcuni testi più recenti, anche perché è di questi ultimi anni una riflessione epistemologica che mostra più evidenti segni di apertura in tal senso. Sembra che, ultimamente, l’atteggiamento antimetafisico cominci ad incrinarsi, a cedere (e non come via di fuga irrazionalistica), proprio per le necessità intrinseche allo sviluppo ulteriore dello stesso metodo scientifico. E questo costituisce un elemento di novità di notevole rilievo, anche se per ora interroga da vicino solo i settori più innovativi della ricerca scientifica e non intacca, almeno apparentemente, i settori più “tradizionali” che vivono in qualche modo di rendita secondo un’epistemologia riduzionista e chiusa.

 

2.2.1. Il problema della tecnica in quanto “scienza applicata”

Innanzitutto nel discorso di Colonia viene operata una distinzione di principio tra “scienza pura” e “scienza applicata” (tecnica), a differenza di molta epistemologia contemporanea che, sulla scia del relativismo, ha negato alla scienza ogni valore conoscitivo, riducendo la scienza anche più astratta ad una “tecnica teorica” per la manipolazione di dati e numeri che servono solo a fare previsioni e costruire macchine, ma non a “conoscere” nel senso di “spiegare” e “comprendere” l’universo nelle sue reali cause.

Il discorso identifica poi due livelli di crisi: l’uno riguardante la scienza come “tecnica” e l’altro riguardante la scienza come “teoria” e stabilisce una precisa “connessione” tra di essi.[31]

L’attuale “crisi di legittimazione” della scienza trae la sua origine dall’avere identificato lo scopo esauriente della scienza, come tale, con l’opera tecnologica. Ormai si deve prendere però atto, attraverso  le conseguenze, dei limiti di questa identificazione.  In questa opzione utilitaristica sono contenute implicitamente due prese di posizione: l’una “etica”, l’altra “epistemologica”.

Sul piano etico:

«Se la scienza è intesa essenzialmente come un “fatto tecnico”, allora la si può concepire come ricerca di quei processi che conducono ad un successo di tipo tecnico» (n. 3)

e, puntando su una logica che identifica il successo tecnico con il valore per l’uomo, si è portati ad identificare il “bene” con “ciò che è tecnicamente possibile”.

Sul piano epistemologico si assume che

«Come conoscenza ha valore quindi ciò che conduce al successo. Il mondo, a livello di dato scientifico, diviene un semplice complesso di fenomeni manipolabili, l’oggetto della scienza una connessione funzionale, che viene analizzata soltanto in riferimento alla sua funzionalità. Una tale scienza può concepirsi soltanto come pura funzione. Il concetto di verità diventa quindi superfluo, anzi talvolta viene esplicitamente rifiutato. La stessa ragione appare, in definitiva, come semplice funzione o come strumento di un essere che trova il senso della sua esistenza fuori della conoscenza e della scienza, nel migliore dei casi nella vita soltanto» (Ibid.)

in una dimensione che viene catalogata come istintiva, sentimentale, comunque irrazionale. E in questa dimensione irrazionale vengono collocate le questioni più importanti come quella del “significato”, dello “scopo” delle cose e della vita e del “fondamento” della conoscenza e così via.

Di conseguenza si rileva come non solo la scienza, ma tutta

«La nostra cultura, in tutti i suoi settori, è impregnata di una scienza, che procede in modo largamente funzionalistico» (Ibid.).

A questo punto del discorso viene stabilito anche il “raccordo” tra l’aspetto etico che riguarda lo scopo della scienza e quello epistemologico che riguarda il suo valore conoscitivo e questo è il nodo centrale. Si passa in tal modo dal problema della tecnica, in quanto scienza “applicata”, alla considerazione del problema della scienza come “teoria” e “forma di conoscenza”.

 

2.2.2. Il problema della scienza in quanto “teorica”

La chiave di volta che sta al centro e raccorda l’analisi della scienza come tecnica con la questione dei presupposti epistemologici della scienza come teoria, sta nell’inevitabilità del nesso tra

— la posizione convenzionalitstica e utilitaristica, che nega la nozione classica di verità oggettiva

— e l’eitca del successo come scopo ultimo della scienza basata sul principio secondo il quale è bene tutto ciò che è tecnicamente possibile.

La prima finisce per negare alla scienza la possibilità di accedere a qualunque forma di conoscenza di verità e di conseguenza anche la sua autonomia e libertà rispetto al potere, e la seconda, nelle sue conseguenze estreme giunge a calpestare anche la dignità dell’uomo e a rendere la società progressivamente invivibile.

«Abbiamo finora parlato prevalentemente della scienza che sta a servizio della cultura e conseguentemente dell’uomo. Sarebbe tuttavia troppo poco limitarsi a questo aspetto. Proprio di fronte alla crisi dobbiamo ricordarci che la scienza non è solo servizio per altri fini. La conoscenza della verità ha senso per se stessa. Essa è attuazione di carattere umano e personale, un bene umano di prim’ordine. La pura “teoria” è essa stessa una modalità della “prassi” umana (…).

Abbiamo parlato di “crisi di legittimazione della scienza”.

Certo, la scienza ha un suo senso e una sua giustificazione quando la si riconosce capace di conoscere la verità e quando la verità è riconosciuta come un bene umano. Allora si giustifica anche l’esigenza della libertà della scienza; in che modo infatti potrebbe realizzarsi un bene umano, se non mediante la libertà? La scienza deve essere libera anche nel senso che la sua attuazione non venga determinata da fini immediati, da bisogni sociali o da interessi economici. Questo non significa però che per principio debba essere separata dalla “prassi”. Soltanto che, per poter influire efficacemente sulla prassi, essa deve ricevere la sua prima determinazione dalla verità, e quindi essere libera per la verità. Una scienza libera e asservita unicamente alla verità non si lascia ridurre al modello del funzionalismo o ad altro del genere, che limiti l’ambito conoscitivo della razionalità scientifica» (n. 5).[32]

 

2.2.3. Dalla via “esterna” alla via “interna”

Attraverso questa via viene riproposta la parola “verità” e con essa il presupposto perché si possa attuare una conoscenza della “natura umana” e con essa il rispetto della dignità dell’uomo. Con questo percorso dall’esterno della scienza, tuttavia, non si è però ancora in grado di costruire “dimostrativamente” un’epistemologia (e più in generale una filosofia) in cui la nozione di verità, in senso classico e pieno, trovi uno spazio e quindi un significato, ma si giunge a suggerire, quasi a “costringere” a prendere atto, mediante indizi fattuali, della necessità di elaborare una teoria della scienza in cui la parola “verità” abbia un valore non convenzionalitstico.

Il riferimento alla concezione medioevale delle scienze e dell’unità del sapere è, a questo punto, reso particolarmente significativo (nel discorso di Colonia), dal momento che, in tale sintesi la parola “verità” ha la sua giusta e piena collocazione. Occorre, però, integrare questo metodo “esterno” con l’attenta analisi “interna” della metodologia della scienza odierna alla ricerca dei suoi “fondamenti logici e ontologici”.

Merita, a questo punto riportare anche una citazione da un testo più recente:

«Oggi, “una grande sfida ci aspetta… quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza;… è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge” (Enciclica Fides et ratio, n. 81). La ricerca scientifica si basa anch’essa sulle capacità della mente umana di scoprire ciò che è universale. Questa apertura alla conoscenza introduce al significato ultimo e fondamentale della persona umana nel mondo (cfr. Enciclica Fides et ratio, n. 81)».[33]

E tra questi fondamenti non può mancare quello antropologico di “natura umana” oggettiva e permanente, che deve essere presupposto come un “dato” e non come un prodotto della manipolazione umana.

Ciò che è interessante e nuovo per la mentalità scientifica è il fatto che ormai questa “apertura”, come si è già detto, non costituisce più solo oggetto di un’esortazione o di un’indicazione proposta dall’esterno della scienza, ma comincia a segnalarsi come una necessità interna, indispensabile per la “fondazione” di un sapere scientifico che non può dimostrare al proprio interno di essere autosufficiente: né “completo”, né “coerente”.

 

3. L’approccio della scienza

A questo punto diviene necessario chiedersi quale riscontro di tutto questo stia emergendo nell’ambito delle scienze.

Il mondo della scienza è stato guidato dai suoi metodi di “oggettivazione”, forse sempre meno capaci di fornire una conoscenza oggettivamente vera della realtà; ma questo non aveva troppa importanza, in fin dei conti, perché ciò che contava era il potere predittivo delle teorie scientifiche e l’efficacia delle loro applicazioni tecnologiche: il fatto che la scienza potesse formulare delle teorie vere o almeno “verosimili” (Popper), o solo “strumentalmente utili” (Kuhn), rimaneva una questione secondaria (Feyerabend) da lasciare ai filosofi, ma del tutto eludibile per gli scienziati.[34] Avanzava quella che Giovanni Paolo II ha chiamato una concezione «funzionale» della scienza.

Oggi ci troviamo di fronte ad un modello di scienza “bipolare”, dove i due poli sono costituiti dalla matematica con la logica formalizzata da un lato, e dalle scienze sperimentali dall’altro: la matematica/logica fornisce alcuni fondamenti per le scienze fisiche e più in generale sperimentali, ma essa, a sua volta

— non viene fondata su una scienza superiore

— né è in grado, da sola, di giungere a fondarsi su dei principi primi “irrinunciabili” e “veri”, ma solo su dei principi convenzionali.

In questa situazione la scienza non riesce né ad essere un sistema completamente dimostrativo, né a dimostrare non solo la propria verità, ma neppure la propria coerenza interna (Gödel[35]). Per questo oggi quello che i matematici hanno chiamato “il problema dei fondamenti” sta acquistando sempre più terreno, perché pone le condizioni per la prosecuzione della stessa impresa scientifica. Al di là dell’opzione convenzionalista il mondo scientifico non è incline a rinunciare scetticamente all’impresa conoscitiva.

 

3.1. Una nuova situazione

Che cosa c’è di nuovo da qualche tempo? Da qualche tempo stiamo assistendo ad un lavoro di ricerca dei fondamenti che avviene, di per sé, indipendentemente da una motivazione religiosa o filosofica, ma che nasce all’interno del mondo scientifico.

— Nell’ambito delle scienze logico-matematiche, penso alle questioni che sono sorte intorno al problema dei fondamenti della matematica e si stanno ampliando verso l’ontologia.

— Nell’ambito delle scienze fisiche, chimiche, biologiche, ecc., penso ai problemi della “complessità” dei sistemi che esse studiano, e che stanno conducendo, in chiave odierna, ad accostare anche l’antica teoria logico-metafisica dell’analogia-partecipazione e anche in c certa misura l’ilemorfismo attraverso la comparsa della nozione di “forma” come “informazione”.

— Nell’ambito delle scienze cognitive e della teoria dell’informazione con le sue implicazioni ciberneticheal problema del rapporto mente-cervello, mente-corpo, intelligenza-macchina che pone il problema di un confronto con la antica teoria dell’astrazione che richiede un soggetto capace di compiere una operazione immateriale per ottenere l’universale astratto immateriale.

Sono nate anche nuove discipline come, ad esempio, l’ontologia formale[36] che si propone di formalizzare simbolicamente la metafisica del senso comune e altre metafisiche, sia per fini ingegneristici che per formulare e comunicare con un linguaggio più rigoroso alcune delle classiche questioni filosofiche.

Nell’ambito delle scienze vi sono, dunque, diversi segnali interessanti che possono portare ad un incontro con la filosofia della natura, la logica e la metafisica aristotelico-tomista, in particolare.

Le scienze si trovano, allora, ad affrontare due ordini di problemi: l’uno è quello dell’ampliamento del loro “oggetto formale”, conseguente all’esigenza di ampliare l’estensione e la comprensione del loro “oggetto materiale”, l’altro è quello dei loro “fondamenti logici e ontologici”.[37] La “natura umana” riemerge così insieme a questi problemi di ordine logico, metafisico e antropologico.

 

3.1.1. Il problema dell’ampliamento dell’oggetto

L’esigenza di ampliamento è imposta alle scienze, sia dai nuovi metodi di approccio al loro oggetto (metodi nuovi sorti a causa dell’insufficienza e dall’inadeguatezza dei metodi già impiegati in passato per affrontare nuovi campi di indagine), sia dallo stesso problema dei fondamenti, per la soluzione del quale occorre una revisione di alcuni aspetti di metodo e di alcuni presupposti che risultano troppo restrittivi.

— La crisi del “vecchio metodo” riduzionista, di fronte al nuovo affronto del problema “tutto-parti” sorto con la teoria della “complessità” ne è un esempio. Il tutto non è riconducibile in molti casi alla “somma” delle sue parti ma risulta essere caratterizzato da un “principio” che ne determina l’unità come un tutto, una “natura” che si perde quando le parti vengono separate fino a spezzare la sua unità. Occorre allora una teoria scientifica che possa ospitare questo genere di principi che danno forma unitaria al tutto. Da qui emerge una sorta di informazione-forma che ricorda quella aristotelica e chiede di essere inserita nel linguaggio e nelle teorie scientifiche. Ecco un primo esempio di come l’oggetto delle scienze tenda ad ampliarsi in senso metafisico accostando degli aspetti della realtà che non sono “riducibili” alla sola quantità e alla relazione tra quantità.

— La teoria dell’informazione sembra in taluni casi introdurre un elemento immateriale di questo tipo nel contesto inizialmente materialista delle scienze fisiche, chimiche e biologiche, suggerendo così proprio un confronto con la dottrina aristotelica della forma. L’informazione pur essendo trasportata da un veicolo materiale come le memorie dei computer o le onde elettromagnetiche, non si riduce a questi supporti materiali, tanto è vero che può essere trasferita da un supporto ad un altro senza alterarsi come informazione mantenendo una sorta di identità autonoma.

— Il già citato problema del “rapporto mente-corpo” apre una serie di interrogativi su quale possa essere un modello cognitivo adeguato a trattarlo, e suggerisce un confronto con la teoria cognitiva aristotelico-tomista dell’astrazione, un altro esempio ancora. E così via.[38] Particolarmente interessante, in questo contesto, è il fatto che il carattere “immateriale” dell’informazione ripropone, in questo ambito delle scienze, il tema dell’immaterialità della “mente” come una entità capace di compiere operazioni immateriali e quindi immateriale essa stessa. In termini più filosofico-teologici parliamo di rapporto anima-corpo.

Le risposte a problemi del genere non rimangono, poi, sul piano puramente teorico, ma hanno anche una notevole ricaduta tecnologica nel campo dell’informatica e della cosiddetta intelligenza artificiale, e questo consente una certo grado di verifica pratica della loro adeguatezza e una motivazione concreto a promuovere la ricerca in questa direzione.

 

3.1.2. Il problema dei fondamenti

Fino a qualche decennio fa per “problema dei fondamenti” si intendeva quasi esclusivamente il problema dei fondamenti della matematica; e questo si riduceva alla ricerca di un fondamento logico-formale della teoria dei numeri nell’ambito della logica simbolica. Per poter essere affrontato adeguatamente questo problema, però, incominciò a richiedere un primo ampliamento della stessa matematica: con Cantor la matematica ampliò il suo oggetto, passò dai “numeri” agli “insiemi”.[39]

Ma la nozione di “insieme” è più “ampia” e comprensiva di quella di numero, è in certo senso più prossima a quella di metafisica di “ente”. Tanto che la nozione di “insieme” è già sufficiente a far insorgere dei paradossi se si pretende di racchiuderla in una sola definizione (univocità). Per rimuovere tali paradossi occorre distinguere diversi “tipi” di insieme, rispondenti a modi di essere diversificati: in questa direzione si è mossa la teoria dei “tipi” di Russell e, in maniera ancora più semplice e geniale, la diversificazione tra “classi proprie” e “classi improprie” di Gödel.[40] Per chi ha qualche conoscenza della logica e metafisica aristotelico-tomista e della matematica è difficile non confrontare queste nozioni con quelle di “genere universale” e di “trascendentale”.[41] Si direbbe che questo rappresenta un passo significativo di ampliamento della matematica verso una logica che include una teoria dell’analogia e verso un’ontologia. Non a caso, recentemente, è nata quella nuova disciplina che va sotto il nome di ontologia formale. Essa è sorta per esigenze legate all’informatica, alla logica e alle scienze cognitive, ma la sua rilevanza filosofica è evidente.

 

4. Conclusioni

In questo lavoro di ampliamento delle scienze in vista di una teoria dei fondamenti di tipo ontologico-formale, ci troviamo a dover affrontare almeno tre ordini di problemi:

1) Il primo problema è quello di una “modellizzazione” per quanto possibile fedele delle teorie aristotelico-tomiste dell’analogia,[42] della causalità e più in generale della ontologia del “senso comune”: si tratta di tradurre in un linguaggio formalizzato simbolico le corrispondenti nozioni e teorie della filosofia greca e medioevale, in modo da consentire il loro impiego e la loro verifica ed eventualmente un loro perfezionamento nell’ambito scientifico odierno.

2) Un secondo problema è quello della dimostrazione dell’esistenza di un fondamento primo, che consenta di evitare un ricorso all’infinito nella catena dei sistemi assiomatici: questo tipo di risultato richiede inevitabilmente una teoria dell’analogia formalizzata. Infatti non si può dare una gerarchia dei sistemi formali se questi sono tutti dello stesso genere, perché si ricade nelle limitazioni imposte dai teoremi di Gödel. Il sistema dei principi fondanti deve essere di “tipo” diverso, esterno alla classe dei sistemi che da esso dipendono, come la classe universale è di tipo diverso da quello dagli insiemi che contiene.

3) Un terzo problema è quello della fondazione del “realismo”: il passaggio dal piano logico a quello ontologico deve essere postulato come principio irrinunciabile o può essere dimostrato, nel senso che l’ente logico richiede come principio primo fondante un diverso “tipo” di modo di essere dell’ente che tutti chiamano “reale” in quanto extra-mentale?

Queste per ora non sono che domande – sono le domande filosofiche di sempre che emergono dalle scienze, come del resto la prima metafisica greca emerse dall’insufficienza della filosofia dei fisici di allora – e la ricerca odierna in questo campo potrebbe risultare rilevante oltre che per le scienze anche per la filosofia e quindi anche per la teologia.

E come le scienze logico-matematiche, anche le altre discipline possono porsi a lavorare sui loro fondamenti e contribuire alla elaborazione della metafisica con i loro metodi e i loro linguaggi. È l’invito che possiamo raccogliere dalle indicazioni del Magistero dalle quali siamo partiti, in questa libera e non poco coraggiosa riflessione, e che ci auguriamo possa giungere a dei buoni risultati. Ed è anche l’invito di quegli uomini di scienza che hanno più profondamente pensato ai fondamenti, come documenta questa riflessione di Gödel con la quale vorrei concludere questa riflessione:

«Per quel che concerne le conseguenze filosofiche dei risultati che esaminiamo, io non credo che siano mai state discusse adeguatamente o semplicemente notate».

Qui Gödel sta parlando (quasi in un inciso), dell’esistenza di

«proposizioni matematiche che sono valide in senso assoluto, senza alcuna ipotesi ulteriore. Proposizioni cosiffatte devono esistere, perché altrimenti non esisterebbero neppure i teoremi ipotetici. (…)

Naturalmente il compito di assiomatizzare la matematica in senso stretto differisce dalla concezione ordinaria della assiomatica in quanto gli assiomi non sono arbitrari, ma devono essere proposizioni matematiche corrette, nonché evidenti senza dimostrazione.

Non c’è via di fuga dall’obbligo di assumere certi assiomi o certe regole di inferenza come evidenti senza dimostrazione».[43]

 

 

Riassunto

La grande questione di una nuova fondazione della ragione (e con essa della verità, del realismo, della nozione di natura umana e di legge naturale), frequentemente richiamata dal Magistero della Chiesa, in particolar modo da Papa Giovanni Paolo II e ai nostri giorni da Benedetto XVI, non sembra essere più solo un argomento di apologetica cattolica. Infatti essa si presenta come strettamente collegata con le stesse condizioni di vivibilità individuale e sociale per l’uomo e con le nuove domande della scienza. Le problematiche della complessità sorte con la crisi del riduzionismo e il problema dei fondamenti sviluppatosi nel contesto della logica e della matematica sembrano richiedere un modo più ampio di affrontare scientificamente la razionalità e la metafisica. La nascita di nuove discipline come l’ontologia formale sono sintomo di una tale linea di tendenza. Questo articolo tenta di mettere a confronto il modo di accostare il problema del Magistero con le problematiche della ricerca scientifica evidenziando la sorprendente convergenza di entrambi i percorsi.

 

Abstract

The relevant question of a new foundation of reason (involving truth, realism, human nature and natural law) invoked by the Magisterium of the Church, especially in the last years by Pope John Paul II and nowadays by Benedict XVI, is no longer only a matter of Catholic Apologetics. In fact it proves to be tightly related both to individual and social sustainability of human life and to the new scientific claims. The topics concerning complexityemerging by the crisis of reductionism and the problem of foundations arising in the context of logic and mathematics seem to require a wider scientific approach to rationality and metaphysics. The birth of new disciplines likeformal ontology are a symptom of this tendency. The present paper attempts a comparison between the approach of Magisterium and some of the new scientific questions and shows a remarkable convergence of both.

 

* Dipartimento di Matematica dell’Università di Bari e Dipartimento di Teologia Sistematica della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna.

[1] Nel senso in cui Tommaso d’Aquino parlava di «pravas consuetudines et habitus corruptos» (Summa Theol., I-II, q. 94, a. 6 co) a proposito della perdita di coscienza di alcuni aspetti della legge naturale.

[2] L’insorgere di queste contraddizioni nella persona era stato già evidenziato dal Magistero conciliare nella Gaudium et spes: «Una così rapida evoluzione, spesso disordinatamente realizzata, e la stessa presa di coscienza sempre più acuta delle discrepanze esistenti nel mondo, generano o aumentano contraddizioni e squilibri. Anzitutto a livello della persona si nota molto spesso lo squilibrio tra una moderna intelligenza pratica e il modo di pensare speculativo, che non riesce a dominare né a ordinare in sintesi soddisfacenti l'insieme delle sue conoscenze» (n. 8).

[3] «Nella famiglia poi le tensioni nascono sia dalla pesantezza delle condizioni demografiche, economiche e sociali, sia dal conflitto tra le generazioni che si susseguono, sia dal nuovo tipo di rapporti sociali tra uomo e donna. Grandi contrasti sorgono anche tra le razze e le diverse categorie sociali; tra nazioni ricche e meno dotate e povere; infine tra le istituzioni internazionali nate dall'aspirazione dei popoli alla pace e l'ambizione di imporre la propria ideologia, nonché gli egoismi collettivi esistenti negli Stati o in altri gruppi» (Ibid.).

[4] Cfr. l’enciclica di Giovanni Paolo II, Fides e ratio, al cap. IV.

[5] Su questi temi la letteratura sia avanzata che divulgativa è ormai piuttosto ampia e mi limito qui a suggerire di consultare le voci pertinenti del Dizionario interdisciplinare di scienza e fede, a cura di G. Tnazella-Nitti e mia, Città nuova-Urbaniana University Press, Roma-Città del Vaticano 2002 (www.disf.org), ove si può trovare anche un’amplia bibliografia.

[6] M.M. Waldrop, Complessità. Uomini e idee al confine tra ordine e caos, Instar Libri, Torino 1996, pp. 8-9.

[7] Ai nostri giorni assistiamo ad una vera e propria esasperazione della tecnologia, soprattutto a livello delle biologia, della genetica, con le tecniche di manipolazione cellulare ed embrionale: quasi una frenesia di onnipotenza che cerca di compensare con il potere della tecnica la perdita del potere conoscitivo conseguente al relativismo nella conoscenza della verità.

[8] Un quadro di grande livello delle problematiche aperte nella fisica contemporanea e delle diverse prospettive è offerto in R. Penrose, La strada che porta alla realtà. le leggi fondamentali dlel’universo, Rizzoli, Milano 2005.

[9] Ho usato qui volutamente i due termini «completezza» e «coerenza» che rievocano i famosi teoremi di Gödel.

[10] In effetti il Magistero fin dai primi secoli si è occupato di questioni filosofiche, ma lo ha fatto principalmente in relazione al rapporto tra fede e ragione e tra filosofia e teologia. Una lettura della storia di questo rapporto nei suoi nodi fondamentali è stata riproposta nei nostri anni nel già richiamato IV capitolo della Fides et ratio.

[11] Cioè concepita come atto-abito dell’intelletto mosso dalla volontà e dalla Grazia, e non ridotta a semplice “salto nel buio” volontaristico, emozionale, sentimentale e ultimamente “senza ragioni” e senza “motivi di credibilità” (cfr. Tommaso d’AquinoDe veritate, q. 14 “De fide”).

[12] Per «recente» intendo principalmente il Magistero da Giovanni Paolo II ad oggi.

[13] Lo si è visto a partire dal discorso di Regensburg del 12 settembre 2006 fino alle parole pronunciate in occasione del più recente viaggio in Austria (7-9 settembre 2007).

[14] È il giudizio che, sorprendendo il mondo, Giovanni Paolo II ha espresso fino dalla sua prima enciclica, la Redemptor hominis affermando che «l’uomo, pertanto, vive sempre più nella paura» (n. 15) e descrivendo e analizzando fenomenologicamente la condizione dell’uomo nel mondo odierno, facendo leva sulla comune constatazione esperienziale che è di ogni uomo e non sulla precettività etica della fede che interpella solo il credente. Questo modo di leggere e giudicare la storia è proseguito per tutto il suo Magistero e in particolare nelle sue encicliche sociali. Possiamo riconoscere nella sua formazione filosofica fenomenologica, questa inclinazione a “leggere l’esperienza” – non fermandosi però ad un livello materialista che fa riferimento alle sole “strutture”, come fa l’analisi marxista, propria del regime in cui egli ha vissuto la sua giovinezza e prima maturità – ma attingendo alla metafisica e all’antropologia e all’etica aristotelico-tomista per individuare le vere cause dei problemi e indicare le vie necessarie in vista di una loro soluzione.

[15] L’indicazione espressa dal Magistero, immediatamente successiva al giudizio sulla perdita di vivibilità, è quella che invita ad interrogarsi sulle “cause” di questa situazione di invivibilità: «Deve nascere, quindi, uninterrogativoper quale ragione questo potere, dato sin dall’inizio all’uomo, potere per il quale egli doveva dominare la terra si rivolge contro lui stesso, provocando un comprensibile stato d’inquietudine, di cosciente o incosciente paura, di minaccia, che in vari modi si comunica a tutta la famiglia umana contemporanea e si manifesta sotto vari aspetti?» (Ibid.).

[16] La questione della ragione ricollocata al centro dell’insegnamento “filosofico” del Magistero dalla Fides et ratio di Giovanni Paolo II è divenuta uno dei temi centrali con Benedetto XVI a partire discorso di Regensburg.

[17] È significativo rilevare come questo collegamento tra “vivibilità”, “verità” e “legge naturale” fosse emerso con largo anticipo nel pensiero di alcuni intellettuali dell’Est europeo, tra i quali ad esempio coloro che facevano capo a Charta 77, proprio a partire dalla esperienza di una società invivibile. Ad esempio, sulla verità: «Finché l’“apparenza”  non viene messa a confronto con la realtà, non sembra un’apparenza, finché la “vita nella menzogna” non viene messa a confronto con la “vita nella verità”, manca un punto di riferimento che ne riveli la falsità. Ma appena di fronte all’apparenza si presenta un’alternativa, necessariamente la mette in discussione in quello che è, nella sua essenza e integralità. In genere non conta quanto è grande lo spazio che l’alternativa occupa; la sua forza non sta nel suo lato “fisico”, ma nella luce che getta sui pilastri del sistema e con cui illumina le sue traballanti fondamenta. Nel sistema post-totalitario, quindi, la “vita nella verità” non ha solo una dimensione esistenziale (restituisce l’uomo a se stesso), noetica (rivela la realtà com’è) e morale (è un esempio), ma ha anche una dimensione politica» (V. HavelIl potere dei senza potere, ed. CSEO, Bologna 1979, pp. 28-29). E sulla legge e il diritto naturale si dice: «La critica mossa dai dissidenti al potere comunista s’identifica anzitutto con la riscoperta della questione del diritto naturale e della natura umana» (V. BelohradskyIl mondo della vita: un problema politico. L’eredità europea nel dissenso e in Charta '77, Jaca Book, Milano 1981, p. 16).

[18] Si ripresenta qui la distinzione tomistica tra revelatum per se e revelatum per accidens (cfr. ad es. III Sententiarum, d. 24, q. 1, a. 2b co) ripresa anche dalla costituzione Dei filius del Vaticano I.

[19] Preferisco impiegare il termine «irrinunciabili» perché è privo di quel carico di “ingenuità” che accompagna ormai da secoli il termine «evidenza» e non sempre a ragione. In realtà c’è anche un’evidenza logica che consegue all’irrinunciabilità ed equivale ad una sorta di “dimostrazione”. Ad esempio quella dei “primi principi” della logica e della metafisica che, Tommaso commentando Aristotele, spiega sono irrinunciabili «nel senso che, per poterli contraddire, coloro che li vogliono rifiutare, devono ammetterne la validità, pur non accettandoli per la loro evidenza» (In Post. Anal., L. I, l. 20, n. 5).

[20] «Una delle funzioni della fede, e non tra le più irrilevanti, è quella di offrire un risanamento alla ragione come ragione, di non usarle violenza, di non rimanerle estranea, ma di ricondurla appunto nuovamente a se stessa» (J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, p. 142). Ho discusso questa affermazione con alcune delle sue conseguenze nel mio articolo “La fede e il risanamento della ragione come ragione”, Divus Thomas, vol. 40 (2005), p. 155-178.

[21] Mi pare sia questo il senso dell’affermazione dell’allora card. Ratzinger riportata nella nota precedente. Vorrei aggiungere che «è bene tenere presente che questo duplice modo di procedere, che considera un procedimento “interno” e uno “esterno” ad un certo ambito cognitivo (fede/ragione) e disciplinare (teologia/filosofia-scienza), non è esclusivo del rapporto fede/ragione, teologia/filosofia, quasi fosse una sorta di scappatoia ad hoc per inventare una soluzione artificiosa ad un problema impossibile, ma è un metodo del tutto normale anche nell’ambito scientifico. Già nell’antichità Archimede testimonia come, attraverso esperimenti di meccanica (cioè “esterni” all’ambito della matematica che non è sperimentale ma logico-formale) fosse riuscito ad intuire alcune proprietà geometriche dei corpi, che poi avrebbe dimostrato con il metodo deduttivo proprio della geometria (cioè con un procedimento “interno” a quella disciplina). Molto più tardi Newton giunse ad inventare il calcolo integrale (“interno” alla matematica) in quanto gli era “suggerito” come necessario per risolvere le equazioni del moto dei pianeti (problema di astronomia, “esterno” alla matematica). La stessa teoria degli insiemi di Cantor rappresenta una sorta di importazione, entro la matematica, di una nozione – quella di “insieme” – che ha un carattere ontologico ben più ampio di quella di numero» (Ivi, p. 164.).

[22] Forse questa era la prospettiva entro la quale una problematica simile si propose nel secolo scorso al tempo in cui si dibatteva sulla possibilità e sull’importanza di quella che allora veniva chiamata “filosofia cristiana”. La differenza principale tra quell’epoca e i nostri giorni sembra risiedere almeno in due aspetti: l’uno sta nel fatto che oggi alcuni fondamenti si presentano come indispensabili a garantire la stessa vivibilità della società, e l’altro nel fatto che alcune problematiche filosofiche fondazionali stanno emergendo, più che nell’ ambito della filosofia, in quello delle discipline scientifiche un tempo considerate “dure” e refrattarie ad ogni problematica di tipo metafisico.

[23] J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza, cit., p. 201.

[24] Giovanni Paolo II parla di «offuscamento della vera dignità della ragione, non più messa nella condizione di conoscere il vero e di ricercare l’assoluto» (Fides et ratio, n. 47).

[25] J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza, cit., p. 75. Per inciso, vale la pena aggiungere che una conseguenza del relativismo filosofico è anche quel «relativismo religioso che porta a ritenere che “una religione vale l’altra”» (Redemptoris missio, n. 36; Dominus Iesus, n. 22). Sulla questione del relativismo il Magistero di Giovanni Paolo II si è soffermato in un centinaio di diverse occasioni. Basti citare per tutte: Pastores gregis, n. 68; Ecclesia in America, n. 53; Fides et ratio, nn. 5 e 80 e specialmente Ecclesia in Europa, nn. 10, 55 e 76. Sul tema della religione e il relativismo cfr. anche A. Strumia, Che cos’è una religione? La concezione di Tommaso d’Aquino di fronte alle domande odierne, Cantagalli, Siena 2006.

[26] Come chiarisce R.M. Pizzorni, «si tratta di un “minimum etico” condiviso dall’intero corpo sociale; ma così si ha un diritto delle regole, e un diritto dei valori, che può definirsi diritto debole, da alcuni ritenuto l’unico possibile nelle società dalle molte etiche, proprio perché non farebbe scelte valoriali che si basano sulla “legge naturale” scritta nella natura dell’uomo e delle cose. Ma così le norme delle varie convenzioni non sono compiutamente giuridiche, ma piuttosto dichiarazioni di buone intenzioni» (R.M. PizzorniDiritto, morale, religione. Il fondamento etico-religioso del diritto secondo San Tommaso d’Aquino, Urbaniana University Press, Città del Vaticano - Roma 2001, p. 301). E già J. Maritain – che pure guardava con speranza a questa via di convergenza pratica che partiva da un accordo minimo tra i popoli – osservava, all’inizio degli anni cinquanta del XX secolo, che «questo è senza dubbio molto poco, è l’ultimo rifugio dell’accordo intellettuale fra Uomini» (J. MaritainL’uomo e lo stato, Vita e pensiero, Milano 1981, p. 91).

[27] Cfr. Benedetto XVI, “Messaggio per la giornata mondiale della pace. 1 gennaio 2007”, dato l’8 dicembre 2006. Inoltre un documento del Pontificio consiglio per i testi legislativi, così si esprime: «Si potrebbe dire che l’intero Magistero sociale della Chiesa nel XX secolo è stato guidato soprattutto dalla necessità di difendere le coscienze dei cristiani e dell’intera umanità contro due grandi utopie ideologiche diventate anche sistemi politici su scala mondiale: l’utopia totalitaria della giustizia senza libertà e l’utopia libertaria della libertà senza verità. Ha detto, infatti, il Papa: “Totalitarismi di opposto segno e democrazie malate hanno sconvolto la storia del nostro secolo” (Giovanni Paolo II, discorso al mondo della cultura nell’Università di Vilnius, 5 settembre 1993).  La prima utopia – e con essa i sistemi politici che in varie forme l’avevano incarnata in Europa – è ormai in via di declino e di estinzione, ma non senza aver lasciato dietro di sé un immenso ammasso di rovine spirituali e sociali. La seconda utopia, invece, quella della libertà senza verità, è purtroppo in fase di crescente espansione. Per essa, maturata nell’habitat filosofico dell’illuminismo e del relativismo agnostico, non è la verità oggettiva che assicura la legalità morale e la razionalità giuridica della norma o delle esperienze biomediche, ma soltanto la verità relativa o convenzionale, frutto pragmatico del compromesso statistico o politico, o addirittura del puro interesse economico» (Pontificio consiglio per i testi legislativi, L'umanità è al bivio, 15.11.2006, §III).

[28] Rimane esemplare il testo del cap. 3 della costituzione dogmatica Dei Filius del Concilio Vaticano I già citata. Si tratta di un tema che è tuttora fondamentale (basti ricordare la già richiamata enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II) e preliminare anche ad ogni discorso sulla scienza.

[29] Anche se con il Vaticano II, nella Gaudium et spes, emergono temi più ampi in ordine alla questione dell’autonomia relativa delle realtà terrene e quindi delle scienze e anche alle grandi questioni etiche e sociali legate alla scienza.

[30] Nel seguito di questo §2.2 farò liberamente riferimento anche al capitolo intitolato “La sfida della verità” nel mio studio L’uomo e la scienza nel magistero di Giovanni Paolo II, Piemme, Casale Monferrato, 1987, rielaborato anche nel successivo Le scienze e la pienezza della razionalità, Cantagalli, Siena 2003.

[31] «La trasformazione del mondo a livello tecnico è apparsa a molti come il senso e lo scopo della scienza. Nel frattempo è accaduto che il progredire della civiltà non sempre segna il miglioramento delle condizioni di vita. Vi sono conseguenze involontarie ed impreviste, che possono diventare pericolose e nocive. Io richiamo soltanto il problema ecologico, sorto in seguito al progredire dell’industrializzazione tecnico-scientifica. Nascono così seri dubbi sulla capacità del progresso, nel suo insieme, di servire l’uomo. Tali dubbi si ripercuotono sulla scienza, intesa in senso tecnico. Il suo senso, il suo obiettivo, il suo significato umano vengono messi in dubbio» (Discorso di Colonia, n. 3).

[32] In positivo si fa anche un accenno ad modello “organico” di unità del sapere e ad una razionalità aperta quale era quella medioevale ai tempi di sant’Alberto Magno e di san Tommaso d’Aquino: «La scienza deve essere aperta, anzi anche multiforme, senza che perciò si debba temere la perdita di un orientamento unitario. Questo è dato dal trinomio della ragione personale, della libertà e della verità, in cui la molteplicità delle attuazioni concrete viene fondata e confermata. Non esito affatto a collocare anche la scienza della fede nell’orizzonte di una razionalità così intesa. La Chiesa auspica una ricerca teologica autonoma, che non si identifica col Magistero ecclesiastico, ma che si sa impegnata di fronte ad esso nel comune servizio alla verità della fede e al popolo di Dio» (Ivi,  n. 5).

[33] Giovanni Paolo II, “Discorso di in occasione del Giubileo scienziati” (25.5.2000). Anche Fides et ratio, n. 106 fa intravedere come il problema dei fondamenti costituisca un punto di raccordo vero e proprio con più profonde questioni filosofiche e teologiche che hanno piena dignità razionale e non possono essere liquidate come psicologiche o irrazionali.

[34] Non sarebbe neppure necessario citare opere di questi autori tanto sono note anche in Italia a partire almeno dagli anni ’70 del XX secolo. Basti ricordare per tutti i titoli tra i più celebri di questi autori quali, K.R. Popper,Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970; T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969; P.K. FeyerabendContro il metodo, Feltrinelli, Milano 1990.

[35] Cfr. K. Gödel, “Proposizioni formalmente indecidibili dei Principia mathematica e sistemi affini I” (1931), in K. Gödel, Opere, vol. 1 (1929-1936), Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 111-145.

[36] Si può vedere ad esempio il sito web www.formalontology.it.

[37] Per una panoramica e una bibliografia su queste problematiche si possono vedere: A. VarziOntologia, Laterza, Roma-Bari 2005; F. Bertelè, A. Olmi, A. Salucci e A. Strumia, Scienza, analogia, astrazione. Tommaso d’Aquino e le scienze della complessità, Il Poligrafo, Padova 1999; G. Basti, Filosofia della natura e della scienza, Lateran Unviersity Press, Roma-Città del Vaticano 2002; G. Tanzella-Nitti e A. Strumia (a cura di),Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, Città nuova e Urbaniana University Press, Roma 2002. Una breve introduzione si trova in A. Strumia, Le scienze e la pienezza della razionalità, Cantagalli, Siena 2003. Sviluppi più recenti si trovano in A. Strumia (a cura di), Fondamenti logici e ontologici delle scienzeAnalogia e casualità, Cantagalli, Siena 2006 e in A. Strumia (a cura di), Il problema dei fondamenti da Aristotele a Tommaso d'Aquino all'ontologia formale, Cantagalli, Siena 2007.

[38] Su questi argomenti si possono vedere alcune voci del Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, già citato. In particolare: J. Polkinghorne, voce “Riduzionismo”, pp. 1231-1236; G. del Re, voce “Complessità”,pp. 259-265; E. Sarti, voce “Informazione”, pp. 740-754; G. Basti, voce “Mente-corpo, rapporto”, pp. 920-939; e la mia voce “Materia”, pp. 849-866. Alcune di queste voci sono disponibili anche on-line nel Portale di “Documentazione Interdisicplinare di Scienza e Fede” (www.disf.org).

[39] «La rivoluzione cantoriana non trasforma soltanto alcuni settori della matematica, ma cambia il suo stesso oggetto. Per Cantor, che riprende un’idea di Bolzano, il vero concetto-base della matematica non è il numero, ma l’insieme, l’unico ente capace di tradurre integralmente, in forma scientificamente utilizzabile, la nozione di molteplicità», G. Binotti, voce “Cantor, Georg Ferdinand”, Dizionario interdisicplinare…, cit., p. 1637.

[40] Cfr. K. Gödel, Opere, vol. 2, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 38.

[41] Cfr. ad es. il mio studio “Dalla scienza matematizzata all'ontologia formale. Annotazioni su analogia e causalità”, in A. strumia (a cura di), I fondamenti logici e ontologici delle scienze. Analogia e causalità, Cantagalli, Siena 2006, pp. 10-48.

[42] Una serie di studi recenti sull’analogia e la sua modellizzazione è presentato in G. Basti e C. Testi (edd.), Analogia e autoreferenza, Marietti 1820, Genova 2004, frutto del lavoro di alcuni studiosi poi confluiti nel gruppo di ricerca sui “Fondamenti logici e ontologici delle scienze”, che ha operato presso l’Istituto Veritatis Splendor di Bologna, in collaborazione con l’Istituto Filosofico di Studi Tomsitici di Modena (gruppo, diretto da G. Tanzella-Nitti e da me, grazie a un cofinanaziamento del Servizio Nazionale per il Progetto Culturale della CEI e dello stesso Istituto Veritatis Splendor).

[43] K. Gödel, “Alcuni teoremi basilari sui fondamenti della matematica e loro implicazioni filosofiche”, in Opere, vol. 3, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 268-269.